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Università dei Saggi  

La promozione della “Carabinierità”


 EDITORIALE  maggio 2022

LA VERA NATURA

Una storiellina incrociata nel web, tra le tante più o meno accattivanti, ma che mi ha fatto profondamente riflettere. Un racconto leggero come una favola di Fedro, quelle che ci hanno affascinato da piccoli e accompagnato nella vita con il loro insegnamento moraleggiante. Un uomo afferra, tra le stoppie incendiate, un serpente già stordito dal fumo. Appena l’animale si riprende volge il capo e morde la mano dell’uomo che, istintivamente, lascia la presa e lo fa precipitare nuovamente tra le fiamme. Ma subito si prodiga per rimetterlo in salvo e il serpente, come prima, lo ripaga con un morso. “Ma perché non lo hai lasciato morire se non ti manifesta riconoscenza, anzi…?”, gli chiede l’amico che aveva assistito alla scena, e l’uomo risponde: “Perché è nella sua natura mordere per riacquistare la libertà ed è nella natura dell’uomo soccorrere chi sia in pericolo”. Forse è un’esperienza che fa ciascuno di noi ogni giorno, magari non proprio con un serpente ma con quanti ci accompagnano in questa avventura terrena, parenti, amici, condomini, conoscenti o anche perfetti sconosciuti appena sfiorati in metropolitana come nella fila alla cassa del supermercato. La vera natura umana, e più nel particolare quella di ciascuno, emerge istintivamente specie nelle situazioni di disagio. Non a caso i periti psicoattitudinali che tutti noi abbiamo conosciuto per ottenere il via libera ed entrare nella famiglia dell’Arma, applicano la tecnica, al momento non compresa da chi subisce un improvviso e inaspettato interrogatorio, di far innervosire, se non proprio indisporre, il candidato non per avere la risposta giusta alla domanda, cosa che proprio non interessa ai fini del test, ma per fare emergere la vera natura della persona: razionale, istintivo, riflessivo, violento, accondiscendente, approssimativo, generoso, egoista e così via. E ci azzeccano sempre! Mia moglie mi raccontava che le sue zie le avevano suggerito, per farle comprendere se io fossi effettivamente il compagno giusto per la vita, di farmi arrabbiare per vedere il mio vero carattere, oltre l’innamoramento che tutto offusca. E dopo oltre quarant’anni di matrimonio devo dire che anch’esse…  ci avevano azzeccato! Allora ho riflettuto, non sulle zie di mia moglie ma tornando alla favoletta narrata: qual è la vera natura del Carabiniere? Il concetto di “Carabinierità” ci aiuta perché, oltre alla parola, già ci offre un’idea, o meglio un ideale, condiviso dalla tradizione e nella cultura popolare, che si origina dalla dedizione e generosità di un uomo disponibile sino all’estremo  sacrificio… e non solo per modo di dire! Chi aspira a divenire Carabiniere già è mosso da questo ideale di servizio, dal desiderio di donarsi per il bene comune e proprio i tecnici dell’arruolamento comprendono, e aiutano a far comprendere anche all’interessato, quanto sia genuino e radicato questo sentimento di abnegazione. La formazione, poi, mette a fuoco quei comportamenti cui ispirarsi nel servizio e nella vita, anche attraverso la conoscenza della storia dell’Arma, illuminata dall’eroismo di quelli che dobbiamo considerare i veri “Maestri”, un patrimonio condiviso cui attingere negli anni, sempre e particolarmente in quelle situazioni di difficoltà, che non mancano mai in caserma come in famiglia, quando, come nel test psicoattitudinale, emerge la vera natura che ci deve condurre alle scelte giuste e tempestive, quelle che attendono coloro che si sono affidati alla nostra responsabilità. Nelle mie ultime esperienze di comando, mi sono imbattuto in una odierna realtà criminale, fatta di moltissime piccole illegalità quotidiane, dove tanti disperati senza progettualità e nulla da perdere, affrontano fisicamente i Carabinieri in servizio sulla strada provocando loro anche danni e invalidità non da poco. Ebbene, questi eroici Militari senza nome e senza gloria, non si sono mai sottratti alla richiesta di intervento o al confronto con il delinquente, magari esponendosi anche ai rischi giudiziari o ai commenti sagaci di zelanti sostenitori delle libertà oltre ogni limite. Incontrando i militari con ancora addosso le tracce delle offese subite, non ho mai scorto nel loro volto il rammarico per aver risposto alla chiamata del dovere, ancorché tutto in salita, e li ho poi  incontrati nuovamente sulla strada animati dall’entusiasmo di sempre, anzi  ancor più motivati e sostenuti dalle esperienze trascorse. Quando l’Arma provvedeva alle traduzioni dei detenuti, competenza affidata dal 1996 più propriamente alla Polizia Penitenziaria, veniva costantemente ribadito ai Militari preposti al servizio il fondamentale insegnamento che il desiderio prioritario di chi sia ristretto è quello di evadere, perché non è nella natura dell’uomo essere privato della libertà personale. Ma proprio perché nella natura del Carabiniere, emergeva anche in queste circostanze il rispetto per l’uomo, quella umanità che Sandro Pertini ricordava di aver conosciuto nei Carabinieri che lo accompagnarono sull’isola di Ventotene  nel suo trasferimento da confinato politico. Quindi, anche quando è morso alla mano, il Carabiniere non sa ritrarla per sottrarsi all’imperativo che gli viene dalla sua vera e più profonda natura, di soccorrere chi sia in difficoltà e affermare con la primazia della legge il rispetto per l’uomo. Quindi, la profonda natura del Carabiniere orienta la nostra azione per tutta la vita, anche oltre gli obblighi del servizio, ed eccoci anche adesso sempre pronti, disponibili nell’Associazione che tutti ci unisce, ma anche nei comportamenti individuali quando seppur non espressamente richiesto avvertiamo che è utile, quando non indispensabile, il nostro esempio. E da “saggi”, quale l’esperienza rende tutti noi anagraficamente più grandi, è bello trasmettere con il racconto della nostra vita militare, nei piccoli come negli importanti episodi vissuti sulla strada o in caserma, concreta testimonianza della “vera natura” che alberga in ciascun Carabiniere, ieri come oggi e come sempre. 

 Il Magnifico Rettore    Antonio  Ricciardi 


  
 


 

  EDITORIALE febbraio 2022


I PONTI LEVATOI



I fiumi dividono e i ponti uniscono, per cui dobbiamo sforzarci di creare sempre ponti tra noi e gli altri, e non mi riferisco solo al ponte sullo Stretto, si faccia o non si faccia, ma a quel dialogo che si può avere solo abbassando il ponte levatoio che si frappone, per ciascuno, tra la nostra e l’altrui umanità. Ma non è sempre così: nella città di Mitrovica il ponte “Austerlitz”, sul fiume Ibar, segna la divisione tra due etnie, la maggioranza serba a nord e la minoranza albanese a sud, residenti già prima della dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel 2008 e ancor prima della guerra del 1999. La guerra ha solo accentuata la divisione della città, tra reciproci sospetti e paure di ritorsioni. Le istituzioni kosovare di fatto non esistono nella parte nord perché rifiutate dalla popolazione serba e quindi scuole, uffici e ospedali, sono tutti gestiti direttamente dalla Serbia, con le strutture esistenti prima del 1999. Per una regola non scritta, i Serbi non vanno nella parte sud e gli Albanesi non attraversano il fiume verso nord. Poi, sono arrivati i Carabinieri. Dal 1999 sono nella loro base di Pristina, con un reggimento MSU (sino al 2013 anche con reparti francesi, estoni e austriaci) nell’ambito della missione NATO-KFOR in Kosovo, inizialmente pure con Stazioni Carabinieri nelle altre province del Paese, chiuse dopo l’addestramento della Kosovo Police che ora assolve tutti i compiti di ordine e sicurezza pubblica. La missione oggi continua per assicurare il mantenimento della pace, ma il compito principale dei Carabinieri della MSU è l’incessante controllo del territorio in Mitrovica, con pattuglie nel nord e nel sud della città e, in particolare, sul ponte “Austerlitz”, punto nodale della città divisa, aperto solamente al traffico pedonale. Un poco di storia, in parte abbastanza recente, per farci riflettere sull’essenza del servizio dei Carabinieri, che ci riconduce alla sua vera natura. Infatti l’attuale attribuzione di compiti e la dislocazione dei reparti in quell’area non è frutto del caso ma delle circostanze che hanno dimostrato come sia stato indispensabile per l’Arma, in una situazione estremamente precaria, assumersi la responsabilità del controllo territoriale e della formazione della polizia. Nulla di nuovo se ricordiamo la partecipazione dell’Arma alle missioni internazionali, in tante parti del mondo sin dalla sua istituzione (Candia, Macedonia, Cipro, Cina, Turchia, Palestina, Persia, Persia, Grecia e tanti altri Paesi ancora), ma un importante riconoscimento nel XXI secolo, quando non sono più i Sovrani o gli Stati a richiedere l’intervento dei Carabinieri ma gli Organismi internazionali e le coalizioni che nascono per affrontare situazioni di crisi, i quali individuano nell’Arma il soggetto più idoneo per assolvere funzioni poliedriche, sempre più indispensabili ma talvolta neanche esattamente definite, né definibili, nella loro originaria formulazione. Quel riconoscimento che il Generale Statunitense David Howell Petraeus, dal 2008 al 2012 Comandante responsabile delle operazioni in Iraq e Afganistan, espresse più volte chiedendo solo più Carabinieri per superare le difficoltà di integrazione dei contingenti con le popolazioni locali e tra le diverse etnie, praticamente per raggiungere la pacificazione sociale indispensabile per il superamento delle conflittualità. Torniamo quindi al ponte di Mitrovica, punto nevralgico per l’equilibrio delle culture che si fronteggiano dall’una e dall’altra parte, per le quali ogni incidente può essere occasione per riaprire lo scontro, come purtroppo accaduto più volte in passato, quando il controllo della situazione non era ancora assolto dai Carabinieri ma da militari di altri contingenti stranieri. Dal 2011 al 2016 il ponte rimase anche chiuso al traffico per i continui episodi di violenza che lo confermavano simbolo della divisione del Kosovo, separando gli 80.000 Albanesi del sud della città dai circa 30.000 Serbi nel nord. Per questo la MSU presidia gli accesi 24 ore su 24, per mantenere l’ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento a tutti i cittadini a prescindere dall'etnia. I Carabinieri sanno che se dovesse andarsene la NATO il Kosovo esploderebbe come un vulcano. Serbi e Albanesi temono ritorsioni e viaggiano senza targa per non essere riconosciuti: appena oltre il ponte, a Sud della città, c’è una moschea proprio davanti alla maggioranza ortodossa del Nord. Ma la divisione di Mitrovica non è solo nell'aria, con due sindaci e due amministrazioni, nel Nord riconosciuti da Belgrado ma non dal governo kosovaro, per cui basta solo una scintilla per sfociare in episodi di violenza. In questo crogiuolo di profonda instabilità, i Carabinieri sono gli unici in condizione di poter prendere un caffè con gli uni e gli altri senza creare per alcuna delle parti sospetti di parzialità, in grado di colloquiare con Serbi e Albanesi che si rivolgono a loro per risolvere quei piccoli “pubblici e privati dissidi”, con il riconoscimento di quella funzione di mediazione sociale che è propria del buon Comandante di Stazione e nell’animo di ciascun Militare. Questa è l’aria che si respira quando capita, come a me appena qualche anno fa ospite di quei reparti e di quegli uomini, di trovarsi con loro per le vie di Mitrovica, divenuta con la loro presenza un luogo di civile convivenza per la funzione sociale assolta da un operatore su cui poter fare sicuro affidamento, soprattutto nei momenti di maggior tensione. Una sensazione ben palpabile che ci inorgoglisce intimamente, da un lato per la manifestazione di fiducia nei confronti dei Carabinieri (ma, anche e soprattutto, del nostro Paese che l’Arma rappresenta in quel territorio), dall’altro, e ben più intimamente, per la consapevolezza di svolgere un servizio preziosissimo alle comunità che ci sono state affidate e a favore di ogni persona che si rivolge a noi senza riserve mentali. In tal modo, si rende possibile la puntuale bonaria composizione di conflittualità latenti, con tantissimi episodi, più o meno importanti, che ovviamente non assurgono alla gloria delle cronache, come invece accade per le manifestazioni di violenza, ma che entrambi i contendenti apprezzano, sapendo anche che il vero ponte tra quelle martoriate popolazioni non è quello in ferro e cemento, ormai simbolo di separazione e di scontro, ma quello che sanno creare solo i Carabinieri favorendo l’abbassamento dei ponti levatoi dietro i quali si arroccano le etnie, le culture, i gruppi di potere e ogni singola persona. Quindi e per concludere, a noi Carabinieri in servizio o in congedo, all’estero come ogni in giorno in Patria, il dovere morale ancor prima che civico, di tener fede alla nostra natura di mediatori sociali disinnescando le conflittualità sempre latenti tra persone e gruppi

Il Magnifico Rettore    Antonio Ricciardi

 


 CYBERGUERRA E SATELLITI NEL CONFLITTO RUSSIA- UCRAINA

L’Ucraina è il primo paese al mondo a combattere una cyberwar, cioè a fare ampio uso delle tecnologie per contrastare l’aggressione del governo russo. Il governo ucraino e in particolare Mykhailo Fedorov, vice-primo-ministro e dal 2019 ministro per la trasformazione digitale, stanno utilizzando le nuove tecnologie per raccogliere fondi, promuovere attacchi hacker contro obiettivi strategici russi, invocare sanzioni contro la Russia e chiedere alle big tech occidentali di fornire supporto all’Ucraina e di ritirarsi dal mercato russo. Dal suo account Twitter Fedorov (@FedorovMykhailo) ha lanciato degli appelli ai leader delle big tech chiedendo un supporto diretto o l’interruzione delle proprie attività sul territorio russo (e bielorusso). Uno dei primi a rispondere è stato Elon Musk, Fedorov l’aveva taggato su Twitter chiedendogli di mettere a disposizione degli ucraini le stazioni internet satellitari Starlink per riattivare le comunicazioni interrotte dai sistemi russi ed Elon ha prontamente messo a disposizione i servizi internet a banda larga garantiti dai satelliti Starlink di Space X che oggi ammontano già a 1,469 unità. Agli appelli su Twitter hanno risposto anche Apple, Netflix, Google e Meta. Apple ha sospeso tutte le vendite nel mercato russo e ha bloccato le esportazioni verso la Russia. Netflix ha interrotto lo streaming dei suoi contenuti. Google, Meta e la cinese TikTok hanno interrotto la vendita di pubblicità. Inoltre, Fedorov ha chiesto a Jeff Bezos di chiudere i servizi di Amazon web services ai clienti russi per fermare il diffondersi della disinformazione attraverso le piattaforme digitali. E in una lettera a Satya Nadella, il CEO di Microsoft, ha chiesto di bloccare le piattaforme di cloud computing Azure, quelle di comunicazione Skype e Microsoft Teams, e l’uso dei sistemi operativi e Office di Microsoft a tutti gli utenti russi. Ad oggi Microsoft e Amazon hanno annunciato di aver sospeso le vendite di nuovi prodotti e servizi in Russia e Amazon ha sospeso i servizi di Prime video. Nel frattempo, in Russia una nuova legge contro le “fake news” è stata approvata dalla Duma il 4 marzo. La legge sanziona con pene fino a 15 anni di carcere chiunque promuova (false) informazioni che possono screditare l’esercito russo o supportare le sanzioni contro la Russia. Non è nemmeno possibile usare la parola guerra, solo “operazione militare”. Con la nuova legge molti contenuti digitali, non in linea con la propaganda russa, sono stati censurati e diverse reti televisive, tra cui RAI, BBC, ARD e ZDF, hanno interrotto le trasmissioni dalla Russia per evitare che i propri giornalisti e personale rischiasse una condanna e la prigione. Per poter comunque fornire un servizio informativo in lingua russa (e inglese) ai cittadini russi la BBC sta trasmettendo su onde corte, una tecnologia di broadcasting che favorisce le distanze e l’accessibilità e che non veniva utilizzata dai tempi della Guerra Fredda. Le trasmissioni su onde corte sono difficili da bloccare e possono essere ascoltate con normali radio, quindi anche bloccando la rete internet non si riuscirebbero a censurare. Infine, la BBC pubblica contenuti in lingua russa su Tor, la rete dark web più popolare dove si può navigare in modo anonimo e soprattutto si possono superare eventuali censure del governo russo. L’occidente sta isolando digitalmente la Russia che risponde annunciando l’intenzione di disconnettersi dall’internet globale e di trasferire tutti i server e i domini nella intranet russa la Ru.Net, confinando ulteriormente i cittadini russi. Come si può combattere una Guerra digitale? Con un esercito digitale. L’IT Army è stato arruolato dal governo ucraino attraverso un canale Telegram che conta oggi più di 300.000 “soldati digitali” volontari. Sul canale Telegram vengono pubblicati i siti degli obiettivi sensibili da colpire digitalmente e l’IT Army, costituito da individui o gruppi di hacker ed esperti digitali si mette all’opera e attacca i vari siti governativi russi bloccandoli. Oltre all’IT Army c’è anche il movimento di “hacktivismo” online Anonymous che sta supportando il governo ucraino pubblicando sui siti istituzionali russi immagini, video e documenti relativi alla guerra che vengono censurati dal governo russo. Sono riusciti a infiltrarsi in spettacoli TV, telecamere di sorveglianza, perfino nei video delle colonnine di caricamento delle macchine elettriche, e hanno trasmesso immagini della guerra che altrimenti non sarebbero accessibili dai cittadini russi. La disinformazione viene combattuta dal gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat che smaschera le fake news attraverso un’attività di controllo delle notizie, il fact-checking. Bellingcat utilizza l’approccio open-source intelligence (OSINT) cioè raccoglie e analizza i dati disponibili al pubblico in rete nei forum, blog, social network, condivisione video, metadati e file digitali, dati di geolocalizzazione, indirizzi IP e tutto ciò che può essere trovato online. Grazie al modello delle 4 M della disinformazione russa, misdate (dati errati), misrepresent (travisare), mislocate (ricollocare) and modify (modificare), sono state analizzate e smascherate diverse notizie false che si riferiscono ad altri conflitti, in altri periodi, o che sono state modificate dalla macchina di propaganda russa e sono state verificate notizie e immagini che la propaganda russa indicava come false, come per esempio il bombardamento dell’ospedale pediatrico Mariupol e di interi quartieri residenziali. Infine, la Russia sta utilizzando l’intelligenza artificiale per creare dei finti reporter di guerra virtuali che diffondono notizie false e supportano la propaganda russa. Vladimir Bondarenk e Irina Kerimova, sono stati generati con il deep fake, una tecnologia che usa l’intelligenza artificiale per produrre video e immagini di persone che non esistono. Per Vladimir è stato creato il profilo di un blogger di Kiev che odia il governo ucraino e posta immagini e video falsi, per Irina quello di un’insegnante di chitarra che dal 2017 ha abbracciato la causa russa e gestisce un giornale online russo. La cosa sorprendente è che Vladimir e Irina non esistono, sono personaggi inventati per diffondere false informazioni. In Ucraina anche i finanziamenti per contrastare l’invasione russa sono digitali. Il governo ucraino ha annunciato di aver raccolto già 100 milioni di euro di donazioni in diverse criptovalute tra cui Bitcoin, Ethereum, USDT, Polkadot, and Dogecoin. Ci sono inoltre numerose iniziative di NFT, non fungible token (gettone non replicabile), creati da artisti di tutto il mondo per finanziare i supporti umanitari e militari al popolo ucraino, una sorta di “war bonds”. Gli NFT sono opere digitali, uniche, non modificabili che vengono registrate sulla blockchain che ne certifica l’unicità, la non modificabilità e la proprietà. Sono stati creati NFT di bandiere ucraine, opere d’arte di artisti ucraini, e nuove opere che create da artisti di tutto il mondo per raccogliere fondi pro-Ucraina. Tra gli aspetti più significativi che sta facendo emergere il conflitto c’è la tendenza verso la decentralizzazione digitale. La decentralizzazione è alla base del web 3, la rete internet di terza generazione che sarà basata sulla blockchain e che permetterà di superare alcuni dei limiti dell’attuale sistema, tra cui la presenza di intermediari e il controllo dei dati da parte di grandi player. I finanziamenti al governo ucraino sono arrivati in modo decentralizzato, frammentato e non controllabile. Gli attacchi hackers alle infrastrutture russe hanno seguito la stessa logica: un vasto esercito ha condotto attività di guerriglia digitale in modo distribuito, quindi non attaccabile, anche se venivano individuati alcuni hacker ce n’erano altre migliaia in azione. Se c’è un obiettivo comune, condiviso e accettato, la decentralizzazione rappresenta uno strumento molto potente per raggiungerlo. Fondamentale è quindi l’obiettivo, che oggi è dare supporto al popolo ucraino, domani speriamo sia la pace e la sostenibilità ambientale e sociale non solo dell’Europa ma di tutto il mondo. Infine, uno degli elementi che sta permettendo all’Ucraina di resistere all’attacco della potente macchina da guerra russa è la visione politica ucraina degli ultimi anni che ha compreso la necessità strategica di investire in tecnologie e infrastrutture tecnologiche per rendere il Paese indipendente dalla Russia. Sono stati fatti ingenti investimenti in banda larga grazie ai quali è tutt’oggi possibile garantire le comunicazioni. Si è investito in criptovalute, intelligenza artificiale e cybersecurity, e oggi è possibile difendersi dagli attacchi digitali, monitorare i movimenti dell’aggressore e tentare di neutralizzarli o comunque organizzare una controffensiva mettendo al riparo i civili, e continuare a finanziarsi in rete.  La sovranità tecnologica o almeno l’indipendenza tecnologica sono oggi uno degli elementi più critici della geopolitica. Per realizzare questa indipendenza tecnologica è fondamentale avere una visione di lungo periodo, sapere dove si vuole andare, e realizzare un piano esecutivo che, con adeguati finanziamenti, ci porti verso gli obiettivi stabiliti. Sembra banale in tempi di pace, ma considerato che ci troviamo a vivere nuovamente una guerra in Europa dobbiamo essere preparati ad affrontare ogni situazione. Dobbiamo superare la strategia della reazione e avere il coraggio di pianificare e realizzare una visione innovativa per il nostro Paese e per l’Europa. Dall’inizio del conflitto tra la Russia e l’Ucraina, vi è stato un incremento dell’utilizzo dei satelliti per documentare l’andamento delle ostilità. Durante la guerra si stanno diffondendo tecnologie sofisticate che permettono di andare oltre la copertura delle nuvole e che possono riprendere immagini chiare anche di notte. Queste nuove apparecchiature riescono a documentare l’evoluzione del conflitto e permettono ad un numero crescente di analisti di Open Source Intelligence (OSINT) di effettuare valutazioni in tempo reale riguardo agli sviluppi sul campo di battaglia. In particolare, le immagini satellitari della Maxar, raccolte dal 18 al 21 marzo, hanno rivelato le continue attività militari delle truppe russe in alcune città ucraine come Mariupol, Kyiv e Chernihiv. Le forze di artiglieria sono tuttora schierate in queste località e continuano a colpire le aree abitate, causando danni a edifici residenziali, siti industriali e infrastrutture. L’utilizzo di tecnologie satellitari può rappresentare un elemento strategico durante un conflitto, creando vantaggi sia offensivi sia difensivi. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da un aumento della disponibilità di dati satellitari, sia dalle agenzie spaziali sia dal settore privato. Infatti, i governi non sono più gli unici in grado di fornire dati satellitari. Grazie alla crescita dell’industria privata, il numero di immagini è maggiore e i tempi di consegna sono più rapidi rispetto ai conflitti precedenti, così come accaduto durante l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 in cui le immagini delle forze filorusse che conquistavano la regione giunsero in maniera rapida e diffusa. Sebbene la maggior parte dei paesi occidentali disponga delle loro risorse satellitari, la loro natura è tuttavia classificata, rendendo difficile la condivisione delle immagini. I satelliti sono l’unico strumento in grado di monitorare la Terra intera, fornendo dati tempestivi e oggettivi. Nel contesto attuale, grazie all’assistenza di Capella Space, le truppe ucraine hanno la possibilità di individuare minacce provenienti dalle forze nemiche e aiutare la popolazione civile in maniera più efficiente. Allo stesso tempo, le tecnologie satellitari possono essere utilizzate anche per scopi offensivi. Per esempio, a differenza dei satelliti tradizionali che puntano solo verso il basso, i satelliti di Maxar possiedono giroscopi che gli permettono di ruotare e puntare un obiettivo con più precisione. L’acquisizione di immagini da parte di Maxar, o altre aziende attive nel settore, potrebbe però condurre a problematiche di tipo etico. La condivisione di determinate immagini selezionate potrebbe svelare non solo i movimenti delle truppe ucraine e i loro schieramenti difensivi, ma avrebbe anche il potenziale di condizionare la percezione dei cittadini, aumentando di conseguenza la disinformazione. Anche le comunicazioni satellitari possono rappresentare una vulnerabilità nell’ambito di un conflitto. Il provider statunitense di comunicazioni satellitari, ViasAnalyst Hermes Bayat, è stato hackerato lo stesso giorno in cui la Russia ha invaso l’Ucraina. Le agenzie di intelligence occidentali ritengono che il Cremlino abbia condotto l’attacco che ha colpito le trasmissioni militari e quelle governative. Nei conflitti armati moderni, l’utilizzo della tecnologia satellitare riveste un ruolo di primo piano anche nella segnalazione di eventuali crimini di guerra. Recentemente, il Congresso degli Stati Uniti ha sollecitato le agenzie di spionaggio a declassificare le informazioni che hanno raccolto sulle presunte violazioni compiute dalle forze armate russe in Ucraina, come l’attacco al Teatro Drama di Mariupol il 16 marzo 2022. La struttura era stata adibita a rifugio per i civili della città, come farebbero supporre anche alcune immagini catturate dai satelliti in cui è possibile notare la scritta ‘deti’ (‘bambini’ in russo). Secondo le fonti dal campo, l’attacco avrebbe provocato centinaia di vittime, perlopiù donne e bambini. I funzionari ucraini e quelli occidentali hanno accusato Mosca di aver condotto deliberatamente un’azione contro un obiettivo non militare e hanno adito la Corte Penale Internazionale a indagare se vi siano responsabilità dirette dei vertici delle forze armate russe. Da parte sua, il Cremlino ha negato di aver preso di mira dei civili e ha affermato che l’edificio era controllato dagli uomini del Battaglione Azov, i quali avrebbero usato il teatro come loro base operativa. Il 19 marzo sono state catturate altre immagini dal satellite Maxar raffiguranti una strada di Bucha in cui sono presenti delle sagome riconducibili a corpi umani. Questi resoconti grafici sembrano essere stati confermati quando le autorità di Kyiv hanno ripreso il controllo della cittadina, rinvenendo circa 300 cadaveri abbandonati nei pressi della carreggiata. Il New York Times ha pubblicato un’analisi dei primi piani della via e ha concluso, dopo averli confrontati con i filmati dell’1 e del 2 aprile dei corpi morti, che molti si trovavano lì da almeno tre settimane, nel periodo in cui le forze russe avevano il controllo della località. Il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy e molti leader occidentali hanno attribuito la responsabilità dell’eccidio alle truppe di Mosca, la quale ha respinto ogni accusa qualificando l’accaduto come una provocazione messa in atto per far fallire i colloqui di pace. I satelliti sono stati altresì utilizzati per documentare possibili violazioni dei diritti umani nell’ambito della guerra civile siriana. Nel 2017 è stato scoperto un presunto forno crematorio nel complesso della prigione di Saydnaya, nei pressi di Damasco. Secondo le autorità statunitensi e Amnesty International, la struttura sarebbe stata costruita dalle forze fedeli al presidente Bashar alAssad per occultare le esecuzioni di massa avvenute all’interno del carcere. Il Governo di Damasco ha respinto tutte le imputazioni definendole come “infondate” e “prive di verità”. Il 16 marzo 2022, il New York Times, sulla base di fotografie scattate dai satelliti tra il 2012 e il 2019, ha pubblicato un articolo in cui si parla di presunte fosse comuni situate presso Najha e Qutafya, città situate a pochi chilometri dalla capitale siriana. Queste testimonianze grafiche sarebbero state comprovate da dei racconti di disertori, i quali hanno descritto le modalità con cui i corpi venivano trasportati e seppelliti. In seguito a questi resoconti, è stato istituito un processo in Germania che ha portato alla condanna di un ex membro dei servizi di sicurezza siriani per crimini contro l’umanità. Se in passato la tecnologia satellitare è stata usata frammentariamente per gettare luce su sospetti abusi dei diritti umani, come la presenza di campi di detenzione nello Xinjiang o il genocidio nel Darfur, il suo ruolo nell’attuale guerra in Ucraina può essere considerato come innovativo. Le costellazioni di satelliti commerciali sono cresciute esponenzialmente negli ultimi anni, sia per dimensioni sia per capacità. Ciò fornisce immagini a più alta risoluzione e permette una copertura più dettagliata sulle aree di interesse. Un ulteriore contributo potrebbe venire dalla HawkEye 360, azienda di analisi geospaziale che gestisce satelliti capaci di tracciare le frequenze radio, e che fornisce un’ulteriore possibile direttrice per individuare unità o individui responsabili di atrocità. L’azienda sta inoltre facendo circolare delle linee guida in cui propone alle imprese spaziali di contribuire ad un’iniziativa per finanziare progetti, come la fornitura di dati per assistere i gruppi di soccorso nelle loro missioni di evacuazione dei rifugiati.

Luigi Romano






 ANTONIO MARTINO MASSIDDA PRIMO COMANDANTE GENERALE SARDO

 L’Arma dei Carabinieri ha avuto un suo primo comandante generale sardo, Antonio Martino Massidda nato a Sassari nel 1804, proveniente dalla categoria dei sottufficiali, avendo servito nell’Artiglieria Reale dell’Armata Sarda, a Novara, nel 1821, a soli 17 anni. Non proveniva inoltre dall’aristocrazia, e fino al grado di colonnello aveva servito, con onore e ottimi risultati, brevemente in fanteria, inizialmente, quindi per lungo tempo nella cavalleria. Come tenente nel 1829 venne assegnato al reparto Cavalleggeri di Piemonte (poi chiamato Nizza Cavalleria a seguito dello scioglimento decretato nel 1832 per via del coinvolgimento di numerosi ufficiali e personale nei moti mazziniani del 1831 e prima ancora in altro episodio assai controverso in seguito ai moti costituzionalisti del 1821,organizzati dalla Carboneria e capeggiati da Santorre di Santarosa). Il tenente Massidda rimase fedele al Re Carlo Felice e venne considerato sufficientemente affidabile da poter permanere in un reparto ripetutamente sensibile alle sirene carbonare, mazziniane e repubblicane, ma la progressione in carriera fu assai lenta. Dovette giungersi al 7 settembre 1847 per vederlo con i gradi da ufficiale superiore e il trasferimento al rgt. Aosta Cavalleria, reparto derivante anch’esso da una unità disciolta a seguito dei citati moti del 1821. Il Reggimento Aosta indossava l’uniforme della cavalleria sarda, con elmo metallico con cimiero e guarniture dorate, che sul frontale recava un trofeo dorato con aquila a ali spiegate, bandiere e armi. Una lunga coda di crine proteggeva da sciabolate alla nuca. L’elmo aveva visiera e coprinuca in cuoio bordate di lamierino e coppa in ferro greggio, bordata di pelliccia corta di pelo d’orso, dal 1840 sostituita con più economico vitello. La giubba turchina era a doppio petto con 9 bottoni metallici per lato, spalline di scaglia metallica, paramani diritti e colletto in rosso con filettatura turchina. Aveva vita diritta e falde con risvolti. La filettatura al giro vita e la fodera dei risvolti alle falde erano giallo cupo dal 1831 al 1838, per poi diventare di colore scarlatto. Il pantalone era turchino e lungo, con le bande doppie di colore rosso. Quello da fatica di colore bigio aveva una sola banda turchina con 14 bottoni d’osso, cuciti a distanza regolare, eliminati per economia nel 1841, in estate si usavano capi di tela bianca. Due bandoliere erano appese alla spalla sinistra: una per la giberna, l’altra – detta rangona – per il moschetto da cavalleria cal. 17,1 mm. a canna liscia. Le divise mi sono sempre piaciute e pertanto perdonatemi la breve perentesi sulla descrizione delle stesse. Con Aosta il Maggiore Massidda partecipò alla 1a Guerra d’Indipendenza, e poco prima di entrare in campagna tutto il reggimento era stato dotato di lancia, come gli altri reparti della cavalleria sarda. L’8 aprile anche i cavalieri di Aosta fecero la loro parte al ponte di Goito, in avanguardia, entrando nell’abitato e caricando alle spalle gli avversari che difendevano il ponte sul Mincio. Si giunse al 20 luglio1848, a Custoza quando l’Aosta Cavalleria – con 3 squadroni – operò in direzione di Sommacampagna, proteggendo il fianco dello schieramento, mentre gli altri 3 squadroni col Maggiore Massidda erano in riserva nella zona di Villafranca. Alla fine della giornata, mentre calava il buio e l’Armata Sarda ripiegava battuta, il reggimento dovette coprire il ripiegamento. Fu firmato l’armistizio, l’Armata Sarda fu riorganizzata e a marzo del 1849 furono riprese le ostilità, concluse con una sconfitta alla fatal Novara nelle giornate del 20 e 21. Il Tenente Colonnello Massidda era sempre in Aosta, e più o meno verso le 11 il reggimento operava sulla strada di Mortara, a protezione delle artiglierie. Dovettero essere condotte varie cariche contro la fanteria nemica che cercava di catturare i cannoni. Allo Stendardo del reggimento «per l’ottima condotta tenuta alla battaglia di Novara e in tutta la campagna del 1849» fu appuntata una ricompensa, la sua prima: una medaglia d’argento al valor militare. Con il Regio Decreto 3 gennaio 1850 venne stabilito un nuovo ordinamento per tutta la cavalleria, della quale era stata evidenziata quale principale carenza l’assenza della specialità leggera. A questa vennero assegnate Aosta e Novara, e proprio di quest’ultimo reggimento il Massidda, promosso colonnello, aveva assunto il comando il 5 maggio 1849. Il reparto era stato costituito nel 1828, raccogliendo l’eredità dei Dragoni di Piemonte, sciolti a causa della loro compromissione coi già citati moti carbonari del 1821. Oltre alla sciabola, i 4 rgtt. della cavalleria di linea e i rgtt. Di cavalleria leggera Novara e Aosta continuarono ad essere armati di pistolone e lancia, mentre gli altri reggimenti di cavalleggeri non furono equipaggiati di lancia. Con Novara il Massidda rimase meno di un anno, e il 23 aprile 1850 gli fu assegnato il comando del rgt. Cavalleggeri di Sardegna. Questo reparto, costituito con il Regio Viglietto del 3 gennaio 1726 che prevedeva: “3 Compagnie Franche, col titolo di Dragoni di Sardegna … 198 uomini oltre agli ufficiali …”, veniva impiegato in servizio di ordine e sicurezza pubblica, non essendo stati ivi dislocati i Carabinieri Reali, disseminato nei piccoli centri dell’isola in piccoli presidi. Successivamente denominato Dragoni leggeri, “In sul finire dell’anno 1794 una parte di esso corpo veniva chiamata a prestare servizio in Terraferma, rimanendone l’altra parte in Sardegna”. Terminata la bufera napoleonica e avviata la Restaurazione, nel 1822 il re Carlo Felice decise di istituire il Corpo dei Carabinieri Reali di Sardegna, distinto da quello presente negli stati di terraferma, che incorporò i Cacciatori Reali in cui erano provvisoriamente confluiti i Dragoni Leggeri di Sardegna, proprio per il loro buon rendimento nel mantenimento dell’ordine pubblico. Il processo di assorbimento, che prevedeva il trasferimento di elementi del Corpo dei CC.RR. dagli stati di terraferma nell’isola, ebbe termine il 1º aprile 1823. Il provvedimento ebbe, comunque, breve durata, per via della necessità di restringere nuovamente agli stati di terraferma il servizio dei Carabinieri Reali, per cui il Governo di Carlo Alberto decise di ripristinare in Sardegna con Regie Patenti del 9 febbraio 1832 e Regio Viglietto del successivo 3 marzo il rgt. Cavalleggeri di Sardegna, ordinato su 2 Divisioni (Cagliari e Sassari) al comando di maggiori squadroni retti da capitani, 13 distaccamenti agli ordini di luogotenenti e sottoluogotenenti e 65 Posti affidati a sottufficiali. Sulle ragioni che indussero alla soppressione dei Carabinieri Reali di Sardegna possono aver inciso motivi di natura economica, atteso che stipendi e indennità di questi ultimi erano decisamente più alti di quelli degli altri Corpi dell’Armata Sarda. In Sardegna Massidda meritò la stima del sovrano, che lo insignì dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro. Con l’estensione all’isola – con legge 15 aprile 1851 – del corpo normativo degli stati di terraferma, si registrò un graduale degrado della sicurezza pubblica, sino ad indurre il Governo di Torino a considerare l’opportunità di reintrodurre i Carabinieri Reali. Il processo si perfezionò con R. D. n. 1505 del 21 aprile 1853, che soppresse il rgt. Cavalleggeri di Sardegna e ricostituì il Corpo dei Carabinieri Reali in Sardegna, sempre distinto da quello di terraferma, del quale godeva di tutte le prerogative e le preminenze. Sembra comunque che la decisione sia stata presa anche in considerazione di gravi mancanze disciplinari e di un tentativo di ammutinamento dei cavalleggeri, problemi che, nel Corpo dei Carabinieri Reali, non erano emersi con pari virulenza. Il nuovo Corpo dei Carabinieri Reali in Sardegna ebbe in organico un colonnello comandante – il Massidda – un tenente colonnello comandante della Divisione di Cagliari, un maggiore comandante della Divisione di Sassari, 7 capitani, 14 luogotenenti, 7 sottotenenti, 1 medico di reggimento (in totale 32 ufficiali). Ai loro ordini erano assegnati 114 sottufficiali, 366 appuntati e carabinieri e 20 allievi, tutti della specialità a cavallo, oltre a 80 sottufficiali, 228 appuntati e carabinieri, 15 allievi a piedi. Il totale del Corpo fu perciò di 855 uomini. Il suo ordinamento comprendeva uno Stato Maggiore, 2 Divisioni, 6 Compagnie (Cagliari interna ed esterna, Isili, Sassari, Alghero e Nuoro), 12 Luogotenenze (Oristano, Lanusei, Iglesias, San Pantaleo, San Luri, Cuglieri, Tempio, Ozieri, Bono, Nulvi e Sorgono) e 114 Stazioni. Questa volta i Cavalleggeri di Sardegna entravano a far parte del Corpo dei Carabinieri Reali, abbandonando definitivamente l’arma a cavallo. Il periodo fu assai gratificante per il Massidda – che sarebbe rimasto nei Carabinieri fino alla fine della prestigiosa carriera – poiché ottenne il riconoscimento di Ufficiale dell’Ordine Militare di Savoia “per lodevoli servizi … congiunti ad intelligenza e sagacia non comuni” il 29 aprile1856, seguito da quello di Cavaliere dello stesso Ordine in data 5 settembre 1858. Il 26 giugno dell’anno successivo giunse la promozione a maggior generale, anche se rimase nel precedente incarico fino a quando non venne costituita la Legione di Cagliari il 16 agosto 1861. Passò a quel punto a Torino, come membro del Comitato del Corpo dei carabinieri Reali, organo collegiale posto al vertice dell’istituzione, venne quindi promosso luogotenente generale nel 1862 e, l’11 agosto 1867, assunse la presidenza del Comitato, incarico ceduto due anni dopo, il 16 luglio 1869 con il collocamento in congedo per limiti d’età.

Cristina Argiolas

 

LA RUSSIA DI ALESSANDRO I

E  QUELLA DI PUTIN,  LA RUSSIA DI IERI  E QUELLA DI OGGI

 

 L’invasione dell’Ucraina ordinata da Putin, inattesa e di cui purtroppo ignoriamo l’esito finale, ha richiamato alla memoria di chi scrive, le parole di Pavel Ivanovic Pestel, giovane combattente nella guerra napoleonica del 1812 e autore anche di una costituzione conosciuta con il nome di Russkaja Pravda. L’epoca è quella dello zar Alessandro I, la Russia di cui parla Pestel è invece la grande madre Russia, il russkjimir, il mondo russo, quello invocato nel 2014 da Putin per giustificare l’annessione della Crimea e, oggi, l’invasione dell’Ucraina. Il pensiero di Pestel si può riassumere: la Russia è immensa ma, accanto al popolo russo, convivono numerose altre nazionalità, altre etnie.  Se le frontiere sono tranquille, assicurano la pace e la prosperità della grande madre Russia ma, può accadere che le piccole nazioni sottomesse a un grande popolo, come il popolo russo, mirino spesso ad essere indipendenti e, può a sua volta accadere che, una grande nazione come la Russia, desideri frontiere sicure e cerchi di impedire che le piccole nazioni che vivono ai suoi margini, finiscano nell’orbita di altri grandi Stati. Pestel, fatta salva la Polonia, nega ai paesi baltici, alla Crimea, alla Georgia, alle regioni del Caucaso e della Siberia il diritto di nazionalità[1]Sono popoli troppo piccoli, appartenenti da tempo alla Russia e senza una storia di vera indipendenza, come oggi accade con il Donbass e la Transnistria, quest’ultima appartenente alla Moldavia, ma autoproclamatasi indipendente e con riconoscimento internazionale solo parziale. Sono nazioni che, a causa della loro scarsa estensione territoriale e conseguente debolezza geopolitica, non potranno mai essere indipendenti. A distanza di due secoli, le parole di Pestel sono terribilmente attuali ma non tali da legittimare i disegni espansionistici di Putin; testimoniano invece la storicità di tensioni, di problemi che, ora palesi ora sottesi, segnano il cammino di un popolo, il suo destino. Sottolineano, anzi, la necessità che le decisioni, le scelte di un governo, come il dire e l’agire di chi guida un grande Paese e , la Russia è tale, nascano da una profonda consapevolezza storica, si interroghino sul perché del riprodursi nel tempo, di avvenimenti tanto dolorosi e tragici come sono le guerre. Tutto ciò, non è per giustificare quanto avvenuto nella sua crudezza ma per ricostruire un passato utile per l’oggi e il domani. Chi ignora il passato ignora anche il presente e si lascia dominare solo dall’istinto di sopraffazione, invece un’azione politica che duri nel tempo e abbia un peso nella vita di un popolo, nasce dalla lucida consapevolezza di non dover ripetere gli errori del passato ma di dover costruire un futuro di pace e prosperità. E’ quanto viene chiesto all’uomo politico che abbia vigore e prestigio di statista, che abbia energia e volontà, capacità di sintesi, lungimiranza che è vedere lontano e da lontano, tutte qualità che Putin non ha, equiparabile com’è ai dittatori di ieri e di oggi

Angela Casilli

 


  "XENOS"

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Nell’antica Grecia, nei millenni definita come ”culla di civiltà”, il termine ”xenos” veniva in genere usato per indicare lo “straniero/nemico”. Nel tempo poi, nella letteratura e non solo, venne varie volte utilizzato per indicare anche lo ”straniero/ospite”. E’ in questa seconda accezione che cominciò ad assumere un valore storico di una certa importanza.

Sin dai tempi più antichi, ogni ”Stato” o “Città-Stato” aveva come obiettivo primario la tutela della propria popolazione e quindi dei propri confini. Questo al fine anche di evitare non solo malattie epidemiche al tempo molto frequenti, ma anche le invasioni delle altre “entità-Stato”, che miravano ad estendere i rispettivi territori. Le lotte e le guerre per le materie prime, per le terre più fertili da coltivare, quando non proprio per acqua e cibo, sono sempre esistite, ed esisteranno sempre finché esisterà l’uomo.

Ma già in quei tempi, l’esigenza del ”controllo” di chi desiderasse muoversi dal proprio luogo d’origine verso altri territori, era molto sentita. Gli spostamenti avvenivano con motivazioni varie. Da chi viveva di scambi commerciali, a chi si muoveva semplicemente per assistere a gare o giochi che si svolgevano con frequenza, a chi cercava di stabilirsi in territori diversi da quelli di origine. Questi ultimi non erano mai ben visti a priori, e anche saggi tanto celebrati come Aristotele teorizzavano la ”legittima sudditanza” dei c.d.”barbaroi” ai greci.

Questo anche perché era molto sentita nel mondo antico, l’esigenza “controllo delle nascite”(ne parla anche Platone),per evitare un eccessivo aumento della popolazione che compromettesse gli equilibri della ”polis”, e potesse creare rischi per la popolazione stessa. Anche per questo, lo ”straniero” veniva ammesso sul territorio, soltanto se si dimostrava: ”Sensibile come un cittadino ESEMPLARE al bene della città. Rispettoso delle leggi e degli usi della città che lo ospitava”.

Doveva inoltre avere una condotta irreprensibile, e dimostrare, anche combattendo in guerra di essere FEDELE e DEVOTO alla città che lo aveva accolto. E’ in questo panorama storico, che il termine “xenos” viene ad assumere un valore importante. Andrà ad indicare una speciale ”tavoletta”, se così può definirsi, che veniva spezzata in due. Metà rimaneva all’abitante del posto, metà veniva data allo ”straniero/ospite”, il quale così non veniva perciò più considerato uno ”straniero/nemico”, ma una persona che sarebbe stata accettata sul territorio perché essendosi conquistata la fiducia, anche con la sua condotta e valore, di qualcuno all’interno di quelle che erano spesso vere fortezze, aveva chi garantisse per lui.

Così se quello che per tutelarsi veniva a priori considerato ”nemico”, possedeva una ”tavoletta” che combaciasse perfettamente con quella di un autoctono che garantisse per lui, poteva essere considerato non un nemico ma uno: ”straniero/ospite”, quindi ammesso sul territorio.

Anche le isole tenevano molto alla ”tutela dei confini”. Una delle leggende forse più ”pirotecniche” che sono arrivate fino a noi, è quella del gigante Talo. Nella mitologia greca, era un gigante di bronzo che vegliava su Creta e sui suoi abitanti. Era dotato di una forza sovrumana, tanto grande da permettergli di scagliare anche massi pesantissimi molto lontano contro navi che volessero approdare ”clandestinamente”. E per combattere i nemici che tentavano di sbarcare sull’isola, si rotolava nel fuoco, e una volta divenuto incandescente, li stringeva in un abbraccio di fuoco mortale. Anche in Sicilia, sono note le ”leggende” di Scilla e Cariddi. Quest’ultima, tramutata in mostro marino, inghiottiva ed espelleva l’acqua del mare tre volte al giorno, creando un gorgo pericoloso per i naviganti che volessero approdare a Messina.

Attualmente, in un mondo globalizzato, alcune leggende fanno quasi sorridere, anche se tuttora non pochi Stati considerano una delle loro priorità la ”tutela dei confini”. A tal fine sono anche disposti a rinunciare a possibili benefici,in quanto considerano molto più ingenti i rischi che correrebbero rispetto a possibili vantaggi che vengono loro prospettati. Tuttavia, le antiche leggende conservano tuttora probabilmente un loro ”fascino”… Infatti, uno dei più pericolosi e micidiali virus informatici è stato chiamato proprio “Trojan horse”, in memoria di come fosse stato possibile distruggere quella che era considerata una delle città più inespugnabili e fortificate del tempo: l’antica ”Troia”.

Sicuramente l’evoluzione nei secoli ha portato molti vantaggi, anche se purtroppo non pochi piangono innocenti vittime di una circolazione molto libera e senza alcun controllo preventivo che consenta verifiche ”a priori” e non ”a posteriori”, delle persone nei territori dei vari Stati. Potrà esserci una soluzione che permetta di conservare ”standard di sicurezza” elevati a tutela di tanti cittadini indifesi senza eccessive ”limitazioni”?

Esiste dunque ”una giusta via di mezzo”, un punto di incontro che possa non far cadere in eccessi lesivi, ma riesca a tutelare i cittadini da tutti i pericoli che possono scaturire da fenomeni in buona parte ”nuovi”, ma con radici non di rado ormai millenarie?

Un’affermazione di LA MONNAIS sembra comunque inconfutabile:” Il dovere ed il diritto sono come due alberi, che se non crescono l’uno vicino all’altro, non daranno mai buoni frutti”. La storia stessa ci insegna come ove non vengano distribuiti diritti e doveri in modo correttamente equilibrato, quella società è destinata presto o tardi a una sicura, profonda quanto irrimediabile, rovina.

Ma mentre il sogno di un mondo che vive in pace si scontra con realtà troppo spesso diverse quando non tragicamente drammatiche e lesive di centinaia di oneste vite, chi si trova a dover ogni giorno affrontare la ”realtà effettiva”, sono tutti coloro che vestono con onore e dedizione la loro divisa.

Sono tutti coloro che, nelle Forze dell’Ordine, conservano un’onestà sempre più pregna di raro valore. Sono quanti riescono a considerare un importante “premio” compiere nel modo migliore possibile il proprio dovere. Sono gli eroi che quotidianamente si preoccupano di tutelare non solo le nostre vite, ma anche il paesaggio, le risorse, il patrimonio artistico...

Sono eroi che non cercano fama o riconoscimenti, ma nell’adempimento del loro dovere agiscono con umiltà e diligenza, lontano dalle cronache e spesso incuranti dei rischi che corrono. Sono eroi che si preoccupano di tutelare tutti noi, ai quali va rispetto e gratitudine…

Il futuro nostro, delle prossime generazioni e spesso di interi Stati è anche nelle loro mani, nel coraggio e dedizione al dovere di cui, in ogni occasione che si presenti, fanno tributo. 

Giulia  Calderone

 
 

 

"ODIO LA DIVISA"

 

In un graffito c'era scritto "ODIO LA DIVISA" e un collega ha scritto questa meravigliosa quanto commovente lettera per tutti quelli che la odiano.

Porca miseria, amico. Sai? Hai proprio ragione. Sta parecchio sulle palle anche a me... Sapessi quant’è scomoda quando rincorro il ladro che ha appena scippato tua madre, o quanto mi fa sudare mentre cerco di bloccare il gradasso che sta picchiando tuo fratello, o quanto tira da tutte le parti mentre sono in auto a cento all’ora per inseguire quello che ha rubato la Smart di tua moglie. Hai ragione, non è affatto pratica. E non lo è neanche quando sfreccio in mezzo al traffico per arrivare a casa tua e farti sentire al sicuro, oppure quando scavo a mani nude tra i detriti per tirare fuori qualche corpo rimasto intrappolato tra le macerie di un terremoto violento ed impietoso, o ancora quando il caldo mi soffoca e a stento riesco a governare il mio idrante per spegnere le fiamme che stanno bruciando l’asilo di tuo figlio, o quando mi tuffo tra le onde per salvare quei disgraziati abbandonati in mezzo al mare. Quel cinturone, poi, che ti stringe l'addome e ti impedisce i movimenti. Immagina quando devo azzuffarmi con lo spacciatore che ha venduto la droga a tua figlia, o quando devo affrontare un rapinatore che mi punta la pistola in faccia, o quando allo stadio ti metto al riparo dall'odio e dalla sregolatezza. O ancora quando dentro un blindato incandescente trasporto un mafioso in un’aula di Tribunale e l’allarme radio mi fa tremare le vene dei polsi, o quando sorveglio tutto il giorno chi ha fatto tanto male alla povera gente. E quella cravatta? Sì, hai proprio ragione da vendere. Quella fastidiosissima cravatta che mi strozza quando cerco di mettere in salvo una brava persona come te, ferita dai rottami di una macchina e intrappolata in mezzo alle lamiere, senza mai chiedermi chi possa essere o che lavoro possa fare. E sapessi quel berretto come mi diventa stretto quando leggo frasi come questa scritte sui muri o sulle facce della gente che proteggo, a discapito del mio tempo libero, dei miei affetti, della mia serenità. Già, perché nessun mestiere è un mestiere a costo della propria serenità, sai? Grazie. Grazie per averlo pensato e soprattutto per averlo scritto sul muro in modo che ognuno possa ricordarselo sempre. Ma sai una cosa, amico? Dovresti provare ad indossarla quella divisa. Dovresti farlo davvero. Almeno una volta. Ti stupiresti della potenza che sprigiona quella sottile stoffa di lana pettinata. E ti stupiresti di come ogni tuo gesto, ogni tuo sacrificio, ogni tuo proposito acquisti ogni volta un senso nel tutto di cui sei parte. Ti stupiresti di come te la sentiresti cucita addosso come se fosse il più perfetto degli abiti che hai, di quelli da cui non vuoi mai separarti e che conserveresti nell’armadio per una vita intera. E poi ti chiederesti molte cose; ti chiederesti da dove arrivino quel coraggio, quella devozione, quell’audacia, quella passione, quella dedizione assoluta che non sospettavi minimamente di possedere. E allora, ne sono certo, immobile davanti al tuo graffito, sorridendo, mi diresti: “hai ragione, amico mio. Qui c'è di mezzo un cuore grande così. Questa è la cosa più preziosa che hai. Questa è la cosa più preziosa di cui potevi farmi in dono."

Un Carabiniere

 
 
 




4 novembre 

 GIORNO  DELL'UNITA' NAZIONALE E GIORNATA DELLE FORZE ARMATE



Il 4 novembre è stata l'unica festa nazionale che, istituita nel 1919, abbia attraversato le età dell'Italia liberale, fascista e repubblicana. Fino al 1976 è stata un giorno festivo a tutti gli effetti. Dal 1977 in poi, a causa di una riforma del calendario delle festività nazionali introdotta per ragioni economiche con lo scopo di aumentare il numero di giorni lavorativi con la legge 5 marzo 1977 n. 54, è stata resa "festa mobile" che cadeva nella prima domenica di novembre. Nel corso degli anni '80 e '90 la sua importanza nel novero delle festività nazionali è andata declinando, ma recentemente (in corrispondenza con la Presidenza della Repubblica di Carlo Azeglio Ciampi) è tornata a celebrazioni ampie e diffuse
In occasione del 4 novembre e dei giorni immediatamente precedenti le più alte cariche dello Stato rendono omaggio al Milite Ignoto, la cui salma riposa presso l'Altare della Patria a Roma, e si recano in visita al Sacrario di Redipuglia dove sono custodite le salme di 100.000 caduti nella guerra del '15-'18, nonché a Vittorio Veneto, la località in cui si svolse l'ultimo confronto militare della Grande Guerra fra Esercito italiano ed esercito austro-ungarico. Le celebrazioni più importanti si tengono a Trento, Trieste e Roma.
 In occasione della giornata delle forze armate italiane, inoltre, è prassi che il Capo dello Stato e il Ministro della Difesa inviino all'esercito un messaggio di auguri e di riconoscenza a nome del Paese.
Durante l'età repubblicana, durante la festa delle forze armate italiane è stata pratica diffusa quella di aprire al pubblico le caserme per favorire l'incontro fra militari e civili. Spesso venivano organizzate esposizioni di armamenti e mostre riguardanti in particolare la prima guerra mondiale all'interno delle caserme. Usuali erano anche, specie negli anni '50 e '60, le dimostrazioni sportive e le esercitazioni dimostrative dei soldati. Nelle principali città italiane inoltre si tenevano concerti in piazza delle bande militari. I Ministeri della Difesa e dell'Istruzione collaboravano affinché bambini e ragazzi prendessero parte alle celebrazioni di fronte ai locali Monumenti ai Caduti. In alcuni anni furono anche promosse iniziative come il libero accesso a cinema e mezzi pubblici per gli appartenenti alle forze armate, e la possibilità per le famiglie di ospitare a pranzo un giovane di leva.














  


















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